H come Heimat
L'esito negativo del tampone mi ha come per magia restituito una parvenza di vita: innanzitutto, da adesso, mi si concede di tornare a lavorare, la sospensione è sospesa, fino a settembre, poi chissà. D'altronde, chi può dire, oggi, che cosa ci porterà, o ci toglierà, l'autunno 2022?
Essere titolare di green pass, tuttavia, non sposta di un millimetro le mie posizioni, e di certo non mi rende più felice; anzi, più lo guardo più mi sento estranea a tutto ciò che significa, quel codice a barre bidimensionale, più mi sento straniera a casa mia. E più avverto, per la prima volta nella vita, una lancinante mancanza di quella che i tedeschi chiamano Heimat, non appartengo a un luogo, e non c'è luogo che io possa dire mio.
La sensazione di sradicamento non è soltanto fisica, ma anche temporale, poiché l'epoca attuale mi restituisce la sensazione di essere un corpo sempre più estraneo. Insomma, fuori posto, fuori tempo.
Ma nell'indulgere in una timida riflessione che ambisca ad andare oltre la gabbia emotiva, io non posso fare a a meno di accorgermi che forse qui, tra le righe che scrivo, è un po' casa, per me. L'interrogativo semmai è: in quale "dove" stanno queste poche righe? In quale non-luogo esse vanno a nidificare?
Ero indecisa se dedicare la lettera H a Herzog, avendo visto, durante una delle lunghe giornate di Covid, il suo "Antarctica - Encounters at the end of the world", straordinario esempio di documentarismo lirico, un genere di cui il regista tedesco da molto tempo fa dono al suo pubblico più fedele. Ecco, proprio ripensando ad alcune sequenze di particolare bellezza mi verrebbe da dire che lo sguardo di Werner Herzog abbia la capacità di evocare un concetto di Heimat universale ed eterno, in cui l'uomo è figlio del creato, rendendo qualsiasi altra considerazione si possa azzardare al riguardo del tutto priva di sostanza.
Serbare nel proprio animo qualcosa di simile al concetto di Heimat credo sia tra le ricchezze più grandi. Occorre averne molta cura.


